sabato 3 febbraio 2018

LA DRAMMATICA STORIA DI HERTZKO HAFT, PUGILE SPIETATO AD AUSCHWITZ PER SOPRAVVIVERE



Si è appena celebrata la Giornata della memoria della Shoah, l'eccidio di oltre 6 milioni di persone di religione ebraica, e tra le innumerevoli storie tragiche di quel drammatico periodo ne emerge una particolarmente significativa, quella di Hertzko Haft, polacco ebreo divenuto pugile spietato per sopravvivere in combattimenti con altri deportati nel lager di Auschwitz e, dopo una fuga rocambolesca e una vita avventurosa, conclusa da campione di box negli Stati Uniti d'America.
«Dopo tutto quello che ho passato, che paura vuoi che mi faccia un uomo con i guantoni?» diceva agli amici americani, prima di battersi contro super pugili del calibro del peso massimo Rocky Marciano. Durante tutti quegli anni, la sua eterna ossessione era stata ed era ancora, piuttosto, la bella ragazza di nome Leah, anche lei ebrea polacca, alla quale prima della deportazione nel campo di sterminio aveva giurato eterno amore e con la quale aveva sognato di vivere per tutta la vita e di formare una famiglia, salvo poi separarsi per sempre da lei una volta spedito ad Auschwitz. Nell'Europa degli anni '40, infatti, una vita come tante voleva dire fare i conti con la piovra nazista, con crudeltà, privazioni, sofferenze e morte. Hertzko Haft, detto la “belva giudea” ,non avrebbe mai potuto temere il ring, il suono del gong, i ganci che gli arrivavano in faccia. Quando in America colpiva i suoi rivali - e lo faceva con tutta la rabbia che aveva in corpo - non “vedeva” pugili, ma ancora prigionieri del lager da abbattere senza pietà: gli stessi che, molti anni prima, era stato costretto ad atterrare e massacrare in match mortali per poter sopravvivere. È questa la terribile storia così come lo stesso Hertzko l'ha raccontata al figlio Alan: dapprima raccolta in una biografia, poi trasposta a fumetti in un toccante graphic novel firmato da Reinhard Kleist (Il pugile, Bao Publishing).
L'invasione della Polonia nel 1939 è il messaggio di guerra che la Germania lancia al mondo. I tedeschi sono molto duri con i polacchi, e lo sono ancora di più se sono di religione ebraica. Hertzko, nato a Belchatow nel 1925, lo è e potrebbe forse sfuggire alla mannaia del Reich, ma decide di sacrificare la propria libertà per salvare quella del fratello Aria. Lo fa fuggire, ma finisce al posto suo nelle mani dei tedeschi che gli schiacciano anche le dita di una mano. Lo attende quel luogo dal nome sinistro: Auschwitz. L'unico rimpianto è quello di aver abbandonato la bella Leah.
«Fummo svegliati nel cuore della notte e ammassati a centinaia, come animali, in vagoni bestiame» raccontò poi. «Il viaggio mi sembrò durare una settimana, senza niente da mangiare né bere, in uno spazio angusto pervaso dal tanfo di urina e feci, le nostre. Alla fine si sentirono solo i moribondi esalare l'ultimo respiro sotto i nostri piedi. Dio non esisteva più».
Al campo di sterminio gli incidono sul braccio il numero 144738. Hertzko è uno dei tanti, ma non passa inosservato: non è altissimo ma, arrivato da poco e non a cosa segnato di privazioni e crudeltà, ha ancora un fisico possente e… tanta cattiveria in corpo. La salvezza, se così può chiamarsi, arriva sotto le spoglie di un ufficiale SS che lo prende sotto la sua protezione e lo convince a tirare di boxe per poter sperare di sfuggire ai più terribili soprusi e alla morte. E nei lager, si sa, quelli che comandano cercando di inventarsi degli svaghi, finendo spesso per farlo sulla pelle dei prigionieri. L'attività che meglio si adatta a quegli ambienti con poco spazio è quella della boxe. Non certo come nobile arte, naturalmente, ma come disperata lotta per la sopravvivenza. Un po' come lo era la lotta per i gladiatori romani. La boxe per Hertzko diventa solo puro istinto, salvare se stesso condannando ogni volta alla fine un innocente nella sua stessa condizione. La boxe ad Auschwitz è una lotta all'ultimo sangue, uno spettacolo di puro sadismo. Gli ufficiali SS sono gli spettatori, puntano sui combattenti e mandano a morte gli sconfitti. Uomini ridotti a bestie, a uccidere per vivere. Picchia selvaggiamente, Hertzko, tanto da guadagnarsi il soprannome di “belva giudea”. Colleziona una lunga serie di spaventose vittorie (forse un'ottantina per ko), ognuna delle quali sarà, poi, una cicatrice nella coscienza. Nel campo di sterminio ci sono altri pugili della morte come lui, qualcuno anche più famoso di lui (come Young Perez, campione del mondo dei pesi mosca), ma nessuno racconterà una storia come la sua.
In questo incubo senza fine occupare la mente con il sorriso della bella Leah è un lusso che Hertzko non si può permettere, la mente completamente concentrata a fracassare la testa a candidati a morte come lui, uno dopo l'altro. Ma restare lì e assistere anche ad atti di cannibalismo tra prigionieri è morire ogni giorno un po' di più. Un circolo di orrore con due soli spiragli: la morte o la fuga. Quest'ultima gli riesce in maniere rocambolesca e fortunata dopo l'assassinio di un ufficiale nazista al quale ruba l'uniforme e di due vecchi che avevano scoperto la sua origine ebraica. A portarlo in salvo sono gli americani. Gli Stati Uniti un lontano zio fa da garante per il suo arrivo e soggiorno. È il 1948, l'America gli offre la possibilità di continuare a boxare. La luce dopo il buio. Hertzko pensa sempre a Leah, ha sentito dire che anche lei è fuggita in America e si mette a cercarla. Ma dove trovarla? C'è un solo modo, pensa: diventare famoso, avere il suo nome a caratteri cubitali sui giornali e offrire a Leah la possibilità di ricontattarlo.
È così che Harry, questo è il nuovo nome americano, comincia la carriera di pugile. È un atleta istintivo, senza tecnica, violento ogni oltre limite, ma senza una strategia difensiva accettabile. Male per per un peso massimo come lui, categoria in cui i pugni incassati sono spesso come cannonate. Pugni che comunque sono carezze in confronto alle angherie subite ad Auschwitz e… ai rimorsi che lo tormentano per aver fatto fuori, un tempo, tante persone come lui. Disputa venti incontri fino al luglio del 1949, vincente fino al k.o. con Lastarza. Però dopo le vittorie iniziali iniziano le sconfitte e match dopo match le sue certezze si incrinano. La fortuna non può aiutarlo a lungo, in quelle condizioni, e infatti sta per abbandonarlo. Ed è il ventunesimo match, quello tanto atteso, quello contro il grande Rocky Marciano, il 18 luglio del '49 all'Auditorium di Rhode Island, a chiudere tutti i conti. Quella sera si presentano nello spogliatoio tre mafiosi. «Sarebbe meglio per lui se si buttasse a terra al primo round» dicono al suo manager. Finisce davvero per k.o. e, benché non fosse un segreto il rapporto preferenziale della mafia con il pugile di origine italiana, non ci sono prove che quell'incontro fosse veramente truccato. Potrebbe essere stata anche una scusa di Harry per giustificare la sua sconfitta così bruciante.
È l'ultimo atto. Harry scende dal ring portandosi dietro tutti i suoi demoni. Cerca di esorcizzarli raccontando la sua storia al figlio Alan che, appunto, la trasforma in un libro. Ma, nonostante abbia una famiglia e dei figli, resta un uomo circondato da durezza e gli è impossibile calarsi nell'amore. Chissà, ritrovare Leah potrebbe aprire una breccia nel suo cuore indurito. La ritrova però, e questa è la sua più atroce sconfitta, malata terminale di cancro, irriconoscibile ma felice di riabbracciarlo. Ecco la drammatica storia di Hertzko, vissuta in
un mondo dove non ci sono uomini buoni, dove non poteva esserci un lieto fine.