venerdì 10 agosto 2018

L'ARTE DI CAMMINARE: CONSIGLI MINDFULNESS PER UNA PASSEGGIATA CONSAPEVOLE


In vacanza al mare, in montagna, al lago, in collina o campagna, perché non approfittare di belle passeggiate a contatto con la natura per allenarsi alla consapevolezza? È in fondo quella che i buddhisti chiamano la meditazione camminata, eseguita nella massima attenzione possibile a tutto ciò che ci circonda, alle sensazioni che ci provoca e alle reazioni suscitate in noi da questa ondata di stimoli sensoriali. Proviamo a farlo, allora, appena riusciamo a entrare istintivamente nel mood adatto. Senza costringerci, ovviamente. Come? Le prime volte forse avremo bisogno di qualcuno che ci guidi, che ci dia qualche dritta così che possiamo approfittare al massimo di questo straordinario momento. Ecco allora i consigli di un esperto in Mindfulness per trasformare la camminata in un prezioso allenamento mentale oltre che fisico. Da iniziare in vacanza e continuare anche al rientro.
Il testo è pubblicato sul sito internet del magazine Io donna (del Corriere della Sera) di questa settimana, che vi invito a consultare sia per leggere l'originale, corredato da suggestive fotografie, sia per trovare molti altri articoli relativi al settore Fitness e Benessere (www.iodonna.it).


La mindfulness, come molti sanno, è la capacità di essere presenti a se stessi, di avere la piena consapevolezza del momento che si sta vivendo, senza l’assedio dei pensieri (sul passato o sul futuro) e delle cosiddette “ruminazioni mentali” che tanto tempo ed energie tolgono al nostro presente. Mindfulness è un termine inglese che si riferisce alla “consapevolezza che sorge dal prestare attenzione, intenzionalmente, al momento presente e in modo non giudicante”, così come l’ha definita Jon Kabat-Zinn, professore presso la Medical School dell’University of Massachusetts (USA) a partire dal 1979. Da allora è stata proposta in più di 1.000 ospedali negli Stati Uniti e in Europa, come intervento di medicina partecipativa, perché riduce quel fiume di pensieri negativi, non produttivi, che sul lungo periodo provocano patologie stress-correlate, dai disturbi all’apparato digestivo a quelli cardiaci, fino all’alterazione del sonno e patologie cardiache.
La mindfulness è dentro di noi, da qualche parte: «è un’innata risorsa umana che, se coltivata e sviluppata attraverso una pratica continuativa, permette di sviluppare un ben-essere della persona basato sulla duplice capacità di essere significativamente in relazione con il proprio vivere e di autoregolarsi dal punto di vista psico-fisico», spiega Franco Cucchio, Coach ICF e MBSR Teacher Trainer per l’Italia del CFM Center for Mindfulness in Medicine, Health Care, and Society, University of Massachusetts-UMass. Cucchio è socio fondatore di Motus Mundi, uno dei centri italiani abilitati alla formazione diffusione e della pratica della mindfulness secondo il programma MBSR, seguendo lo spirito del fondatore del Center for Mindfulness, Jon Kabat-Zinn.

Usate la mindfulness per sconfiggere i pensieri negativi. In che modo? Siete al mare e camminate all’alba, lentamente, nel silenzio. Avete la netta percezione della sabbia tra le dita dei piedi, del rumore del mare che culla il vostro respiro. Siete in montagna, lungo un sentiero, e avvertite l’umidità muschiosa del bosco e lo scricchiolio delle foglie sotto vostri passi. Oppure siete in città, passeggiate con il gusto di osservare le case, i balconi fioriti, gli scorci improvvisi che aprono l’orizzonte. Ovunque siate, cosa c’è di meglio del tempo di vacanza per sperimentare una “passeggiata consapevole”? Utilizzata e apprezzata come elemento della mindfulness, è un vero allenamento per imparare a trovare varchi al vortice di pensieri che ci attanaglia tutto l’anno o che, spesso, compare proprio durante le tanto attese vacanze.

 Rallentare
 «Proprio in questi giorni ho condotto un corso intensivo di alcuni giorni e al mattino andavamo tutti a camminare all’alba sulla spiaggia, in silenzio, per ritrovare un contatto con la natura, con i nostri sensi e con noi stessi», spiega. «È importante rallentare il passo, per gustare il momento presente e riprendere contatto con il corpo e i cinque sensi. Quando rallentiamo il passo, facilmente ritorniamo consapevoli della natura in noi e attorno a noi. Impareremo, poi, che la pratica della camminata consapevole è sempre possibile, anche al ritorno dalle ferie, perfino se ci troviamo in ufficio: anziché correre da un luogo all’altro potremmo rallentare il passo e ascoltare di più il corpo, e magari arrivare al nostro appuntamento o colloquio con meno preoccupazione e uno stato interiore di maggiore apertura».

• Silenzio
È un elemento fondamentale: trovare alcuni minuti per restare in silenzio è un modo profondo per riconnettersi con se stessi. Nella pratica della mindfulness ci si siede in silenzio e in ascolto del proprio respiro e del corpo e gradualmente ci si porta ad acquisire una sensibilità per distinguere e entrare in contatto anche con le attività mentali e le emozioni. Il silenzio ci permette di riconnetterci ai nostri sensi e alla natura attorno a noi. Bastano solo un paio di giorni e ci trova un’affinità elettiva con il silenzio. «Nel 2013 la cardiologa e neurologa Imke Kirste della Duke University ha pubblicato lo studio “Is silence golden?”, spiega Cucchio. In un esperimento ha così dimostrato che il silenzio – più di qualsiasi altro suono – provoca la neurogenesi, ossia il processo che porta alla nascita e alla crescita dei neuroni».

• No cuffiette
Camminare con un sottofondo musicale, di qualsiasi tipo, non permette di raggiungere la connessione con se stessi ma, anzi, fa deconcentrare e rende i pensieri e le fantasie dirompenti. «La musica in cuffia, con cui spesso anche chi fa pratica sportiva si aiuta durante gli allenamenti per dimenticare la fatica, non è utile: anche gli sportivi dovrebbero invece imparare ad ascoltare il proprio corpo, essere concentrati sul respiro e sulla precisione del movimento, perché questo permette di migliorare la resistenza».

• Tutti i giorni
È importante rendere l’esperienza della passeggiata quotidiana, «perché la qualità della presenza a se stessi va allenata come un muscolo, le funzioni neuronali attentive si affinano e poi, senza nemmeno accorgersene, si arriva ad usarle anche nel quotidiano». Da soli o accompagnati, è una scelta personale. 

• Fare memoria
Quanto siete capaci di fare il pieno di ricordi delle vostre vacanze? Quanti momenti e immagini positive riuscite a collezionare, bagaglio fondamentale alla ripresa del lavoro? «Più le esperienze sono vissute consapevolmente, più esse rimangono nella nostra memoria», sottolinea Cucchio.
Mindfulness è un termine correlato a sati, parola indiana che nella sua etimologia ha anche “ricordare”. In questo caso, con una doppia valenza: ricordare ogni esperienza vissuta con consapevolezza, ma anche ricordarsi del momento presente, abbandonando il flusso di pensieri legati al passato o le ansie sul futuro».

lunedì 6 agosto 2018

IL FUTURO CHE CI ASPETTA (A LIVELLO COSMICO E PLANETARIO)


Ogni tanto ci accorgiamo che il cosmo esiste. È accaduto anche pochi giorni fa quando, lasciando da parte tutto ciò che di futile riempie la nostra vita, molti di noi sono rimasti a lungo con il naso in su per assistere (dove era possibile) alla lunghissima eclissi di Luna, peraltro uno spettacolo che si ripete spesso, anche se per tempi più brevi, e quindi non è affatto un avvenimento così raro e straordinario. Comunque, questa occasione almeno ha spinto molti ad ammirare la luna rossa e Marte, quel dischetto luminoso e rossastro che le appariva accanto, e a meditare con tanta emozione sulla grandezza del cosmo, appunto. Le persone meno superficiali a volte possono farsi alcune domande su questo tema, un vero enigma sul quale l'uomo ha sempre cercato di indagare utilizzando i mezzi che aveva a disposizione al momento, una fase storica dietro l'altra, fin dall'antichità. Hubert Reeves, un astrofisico di fama mondiale, autore di vari libri tra i quali L'universo spiegato ai miei nipoti, si è espresso varie volte in merito, con posizioni anche scomode o provocatorie, ma comunque sempre accessibili al grande pubblico. Sul cosmo e sulla sua evoluzione, ma anche sul destino del nostro sistema solare e del pianeta che ci ospita, tra l'altro si è espresso anche così:

«Le osservazioni più recenti sembrano favorire lo scenario di una continua espansione. L'universo sarebbe allora di dimensioni infinite e la sua vita si prolungherebbe indefinitamente. Esso si raffredderebbe tendendo a poco a poco verso lo zero assoluto. Detto ciò, non bisogna essere categorici: le nostre previsioni si basano su teorie che presuppongono l'esistenza di quattro forze, e di quattro soltanto. Nulla ci consente di affermare oggi che non ne scopriremo altre, e tali scoperte potrebbero modificare le nostre previsioni.
Le stelle che rischiarano il nostro cielo notturno non partecipano però a tale espansione. Globalmente, non si allontanano da noi. L'espansione avviene tra le galassie e non all'interno di queste. Col tempo le galassie appariranno via via più deboli ai nostri telescopi, ma tale indebolimento non sarà percettibile se non tra parecchi miliardi di anni.
Certe stelle moriranno, come il nostro Sole, che ha già bruciato la metà del suo idrogeno ed è a mezzo cammino della sua vita. Tra 5 miliardi di anni l'avrà consumato quasi tutto e diventerà un gigante rosso. Il suo nucleo centrale si contrarrà sempre più; la sua atmosfera invece si espanderà fino a un miliardo di chilometri. Nello stesso tempo il suo colore passerà dal giallo al rosso.
Il Sole sarà mille volte più luminoso di oggi. Visto dalla Terra, occuperà una gran parte del cielo. La temperatura sul nostro pianeta salirà fino a parecchie migliaia di gradi: la vita scomparirà, la Terra si volatilizzerà. Ciò accadrà tra alcune centinaia di milioni di anni. La nostra stella disintegrerà anche Mercurio, Venere e forse Marte. I pianeti lontani, come Giove e Saturno, perderanno la loro atmosfera di idrogeno ed elio e conserveranno soltanto gli enormi nuclei rocciosi messi a nudo. Più tardi ancora, il Sole, privato della sua sorgente di energia nucleare, prenderà l'aspetto di una stella nana bianca, della dimensione della Luna. Si raffredderà lentamente, per altri numerosi miliardi di anni, fino a diventare una stella nana nera, un cadavere stellare senza luce.
La Terra ritornerà nello spazio interstellare. Più tardi potrà entrare nella costituzione di nuove stelle, cioè parteciperà alla formazioni di altri pianeti.
E gli atomi del nostro corpo serviranno forse un giorno a formare altri organismi viventi, in lontane biosfere…
L'uomo non potrà restare sulla Terra più di 4 miliardi di anni, ma si può ipotizzare che già molto prima di questa fatidica data noi saremo in grado di compiere lunghi viaggi interstellari. Pensate ai progressi fatti in due o tre generazioni. Le nostre nonne viaggiavano a 50 chilometri all'ora al massimo, mentre noi oggi disponiamo di astronavi che raggiungono i 50.000 chilometri orari. Non è da escludere che le sonde arrivino un giorno a velocità vicine a quella della luce. I nostri discendenti saranno allora capaci di andare a cercare la luce in stelle lontane…
Ma dopotutto non è così certo che saremo noi i protagonisti di questa storia. Si potrebbe immaginare che la specie umana si possa spegnere senza che la vita scompaia totalmente. Gli insetti, per esempio, sono molto più resistenti di noi. Gli scorpioni possono convivere con un tasso di radioattività ben superiore a quello che ucciderebbe noi e potrebbero sopravvivere a una guerra nucleare, sviluppare la loro intelligenza e riscoprire la tecnologia. Rischierebbero, allora, tra alcuni milioni di anni, di incontrare problemi di inquinamento analoghi a quelli attuali.
Noi siamo attualmente di fronte ai limiti del nostro pianeta. È possibile far coesistere 10 miliardi di persone senza deteriorarlo? Anche se gli esseri umani sono geniali – e l'hanno provato numerose volte scindendo gli atomi ed esplorando il sistema solare – questo compito sarà più arduo di tutto quanto è stato fatto in passato. Esso impone, in particolare, di abbandonare l'idea di crescita economica e di limitarsi allo “sviluppo durevole”. Ma è difficile farlo capire a chi ci guida.
In un organismo esiste un sistema di allarme e uno stato di guarigione. Se ferito, tutto il corpo si mobilita. Dobbiamo inventare un sistema analogo a livello planetario. L'ONU e le associazioni umanitarie ne sono già un abbozzo. Bisognerebbe andare ben più lontano.
Forse siamo semplicemente ancora nella preistoria, forse abbiamo ancora bisogno di ancora molto tempo per accedere a un stato superiore di morale e civilizzazione. L'umanità ha davvero fatto progressi  dal punto di vista del comportamento e della morale? Non ne sono certo e se ne potrebbe discutere a lungo. È vero, c'è stata l'abolizione della schiavitù e il riconoscimento dei diritti dell'uomo. Ma gli indiani d'America avevano già raggiunto un ammirevole livello di comportamento umano. Avevano stabilito regole di condotta sociale che hanno largamente influenzato la Costituzione americana. Claude Lévi-Strauss ha dimostrato che la schiavitù è legata alle grandi civiltà. Non è un dato evidente che la morale progredisca.
La civilizzazione sulla Terra verosimilmente non è che un esempio tra molti. Nell'ipotesi in cui l'evoluzione cosmica abbia condotto alla formazione di altri pianeti, di altre forme di vita, di altre intelligenze, si può ugualmente supporre che queste civiltà extraterrestri si sian già confrontate con le minacce che noi oggi incontriamo sulla Terra. Una visita a questi mondi presenterebbe due tipi di aspetto ben diversi: pianeti aridi, coperti di rifiuti radioattivi presso quelle civiltà che non hanno saputo adattarsi; distese verdi e accoglienti resto le altre.
Nel XX secolo gli esseri umani hanno inventato due modi di autodistruggersi: l'eccesso di armi nucleari e il deterioramento dell'ambiente. La complessità può progredire? Sarebbe una buona idea per la natura raggiungere quel livello di evoluzione che la conduce a minacciare se stessa? L'intelligenza è un regalo avvelenato?
Si impone ora questa domanda: siamo in grado di coesistere con la nostra stessa potenza? Se la risposta è no, l'evoluzione continuerà senza di noi. Come Sisifo, avremo spinto il nostro sasso in cima alla montagna per lasciarcelo sfuggire di mano. È un po' sciocco, vero? Non dobbiamo chiudere gli occhi sulla gravità dell'attuale situazione. Tuttavia, quel che conta è restare ottimisti. Bisogna mettere in opera quanto è possibile  per salvare il nostro pianeta prima che sia troppo tardi. Spetta dunque a noi fare in modo che questa bella storia di mondo abbia un seguito».

C'è forse qualcosa da aggiungere?


mercoledì 25 luglio 2018

VALE LA PENA DI SACRIFICARE LA VITA PER IL SUCCESSO?


Genio. No, predatore. Ha salvato la Fiat dal fallimento. Ma non il rapporto con i lavoratori. Adesso che Sergio Marchionne, l'amministratore delegato della FCA, non c'è più, i sostenitori e i detrattori si sono scatenati lanciando i propri giudizi sulla persona, sul suo operato. Parole sprecate, come è sprecato il tempo nell'ascoltare questi inutili discorsi nelle lunghe trasmissioni televisive sull'argomento che grondano retorica. È praticamente impossibile stabilire la verità, ammesso che serva. Solo lui sa perché ha agito in un certo modo e che cosa l'ha spinto a determinate decisioni piuttosto che ad altre. Importanti per il futuro dell'azienda che era stato chiamato ad amministrare e per quello dei suoi lavoratori, certo; dai risultati straordinari in termini economici per sé, per l'azienda e per i tanti operai, ma anche a livello di successo, di immagine pubblica, tutti obiettivi che vengono esaltati da chi adesso ne fa un simbolo positivo del neo-capitalismo, è vero. Ma se si fa un ragionamento più profondo, che investe la sua vita personale, adesso che è mancato a un'età ancora relativamente giovane viene quasi spontaneo chiedersi: ma a quale scopo ha fatto tutto questo? E a che cosa gli è servito? Che cosa ne ha acquistato la sua vita personale? Adesso leggiamo che metteva la sveglia alle 3,30 della notte, che fumava anche 7 pacchetti di sigarette al giorno, che trascorreva gran parte dei suoi giorni in aereo, tra una trasvolata e l'altra, sempre in viaggio fra Torino e Detroit, le due sedi della FCA. Se questo è normale… Evidentemente per lui lo era, visti gli alti obiettivi che si prefiggeva, a costo di una violenza estrema verso se stesso e la propria vita. È vero, era un grande manager, un uomo di cultura (aveva tre lauree), ma questo solo non fa di un uomo un grande uomo, se poi lo utilizza per autodistruggersi. Tutto nel suo comportamento fa intuire che fosse ossessionato dall'ansia di riuscire nella sua grande impresa. Ma se pensi al successo, sotto sotto pensi anche alla possibilità del  fallimento e hai paura. Il successo ti porta nel futuro, ti colloca in un gioco di avidità, in una proiezione dell'ego, nell'ambizione. E se le responsabilità sono enormi, la mente, per non andare in scacco, mette in atto tutto ciò che può per anestetizzare l'ansia, come fumare tutte quelle sigarette, pessima scelta per il proprio organismo. Ecco una vita che non è stata vissuta, celebrata, assaporata momento dopo momento, fino in fondo, all'insegna della semplicità e della spontaneità, della quiete interiore, ma che è finita letteralmente in fumo. Prima del tempo.

lunedì 23 luglio 2018

LA MATERIA NON ESISTE, C'È SOLO ENERGIA




L'omeopatia può essere considerata a tutti gli effetti una branca della medicina, e i rimedi omeopatici sono davvero efficaci? La discussione dura da decenni, e ogni tanto qualche esponente anche di rilievo della medicina ufficiale si prodiga come può nel confutare i risultati terapeutici che l'omeopatia indiscutibilmente consente. I motivi che adduce per sostenere che si tratta solo di chiacchiere sono due. Primo: le forti diluizioni delle sostanze terapeutiche contenute nei rimedi omeopatici fanno sì che alla fine in questi non ci sia una vera sostanza curativa, che per la medicina ufficiale deve essere presente alle dosi, decisamente superiori, ritenute efficaci per curare le malattie. Secondo: trattandosi in pratica di acqua fresca, le guarigioni vere o presunte sarebbero da riferire soltanto all'effetto placebo, in pratica ad autosuggestione da parte del paziente. Cominciamo dal secondo punto: secondo me con questa affermazione la medicina ufficiale non fa altro che darsi la zappa sui piedi, perché in pratica afferma che l'acqua fresca cura quanto i farmaci allopatici, che sono la sua forza, ma anche la sua debolezza, visti gli innumerevoli effetti collaterali e i rischi potenziali che comporta la loro assunzione. Per quanto riguarda il primo punto, in un certo senso è vero che della sostanza terapeutica (che, è bene sottolinearlo, molto spesso in omeopatia è una sostanza che a dosi più alte provoca la stessa malattia che invece, diluita di molto, riesce ad alleviare o guarire) non resta più gran che, ma da qui a dire che quella sostanza, seppure resa quasi evanescente, non ha alcun effetto sull'organismo ce ne passa. Chi continua a sostenere queste cose non conosce la fisica moderna, la quale afferma che non esiste alcuna materia, esiste solo energia. Dunque, che cos'è la materia che vediamo, per esempio, in una roccia? È soltanto energia condensata, appare soltanto, non ha solidità. Energia che si muove così velocemente che ai nostri occhi non è possibile vedere il suo movimento e ci dà l'idea di solidità, di materia. Quindi anche per la fisica moderna la materia si rivela essere maya, cioè un'illusione, la creazione dei nostri sensi, ma anche dei nostri desideri e dei nostri sogni. E l'omeopatia utilizza per curare non la sostanza in sé, ma proprio l'energia che sprigiona. 
È questo che un medico tradizione non vuole capire, perché manderebbe in crisi tutto ciò che la medicina ha costruito: un castello di credenze che crolla e viene ricostruito in continuazione, perché le scoperte si susseguono e ciò che è scientifico oggi può non esserlo più domani. Quindi nessuno dovrebbe arroccarsi sulle conoscenze attuali, ma aprirsi ad altri punti di vista, per una medicina davvero integrata nell'interesse del paziente, e non difesa per consolidare una posizione di potere e qualcosa che sa tanto di orgoglio e, in pratica, di ego. 

lunedì 16 luglio 2018

“TATHATA”, LO STATO DELLE COSE CHE NON BISOGNA CONTRASTARE



Uno dei libri che non posso fare a meno di rileggere spesso è L'ABC del risveglio di Osho (Oscar Mondadori). Percorrendo in ordine alfabetico i più importanti temi che riguardano la nostra vita, rappresenta la summa dell'insegnamento del grande, indimenticato rappresentante della spiritualità orientale. Proprio in questi giorni, sfogliando le sue pagine come fossero una bibbia, ecco che cosa di straordinario e prezioso ho ritrovato alla voce “Fattualità”.

Il Buddha usa moltissimo la parola “fattualità”. Nella lingua del Buddha è tathata: la fattualità, lo stato delle cose. La meditazione buddhista non è altro che vivere costantemente in questa parola, con questa parola, così in profondità che la parola scompare e tu diventi la fattualità.
Mangi, dormi, respiri, ami, piangi in quella fattualità: diventa il tuo stile di vita, non hai bisogno di preoccupartene né di pensarci, è ciò che sei.
Per esempio, sei malato. Quest'attitudine “essenziale” è accettarlo e dire a te stesso: “Tale è la natura del corpo”, oppure: “Così stanno le cose”. Non creare alcuna lotta, non iniziare a lottare.
Hai mal di testa, accettalo: è la natura delle cose. All'improvviso accade un cambiamento, perché quando questo atteggiamento prende piede, il cambiamento lo segue, come un'ombra: se riesci ad accettare il tuo mal di testa, il mal di testa scompare. Provaci: se accetti la malattia, questa inizia a scomparire. Come mai? Perché ogni volta che lotti, la tua energia è divisa: metà dell'energia si muove nella malattia, nel mal di testa, e metà dell'energia lotta contro il mal di testa. Si verifica una spaccatura, una rottura e la lotta… in realtà, questa lotta provoca un mal di testa ancora più profondo. Quando accetti, quando non ti lamenti, quando non lotti, l'energia dentro di te si integra e ogni spaccatura viene colmata. Allora si sprigiona una quantità di energia enorme, perché non esiste più alcun conflitto; e la stessa energia che si sprigiona diventa una forza che guarisce.
Questa parola, tathata, può operare così profondamente da essere efficace sulla malattia fisica, sulla malattia mentale e infine sulla malattia spirituale: è un metodo segreto, che porta al dissolversi di ogni malattia. Questa è la bellezza dell'assenza di lotta: trascendi, non sei più sullo stesso piano. E questa trascendenza diventa una forza che guarisce: all'improvviso il corpo inizia a cambiare. La stessa cosa accade alle preoccupazioni mentali, alle tensioni, alle ansie, all'angoscia. Perché una cosa ti preoccupa? Non sei in grado di accettarla, per questo ti preoccupa: vorresti che fosse diversa.
Per esempio, quando l'amore scompare, cosa puoi farci? Non hai scelta: non è possibile forzare l'amore… non si può far nulla contro la natura. L'amore era una fioritura, ora il fiore è appassito. La brezza era entrata nella tua casa, ora si è spostata in un'altra. Questa è la natura delle cose: continuano a muoversi, a cambiare. Tu vorresti che che questo amore rimanesse per sempre: nulla può essere eterno in questo mondo: tutto ciò che appartiene a questo mondo è momentaneo. Questa è la natura delle cose, la loro essenza, tathata.
Non puoi lottare contro “lo stato delle cose”, lo devi accettare.
Ricorda, la vita non ti asseconderà mai: tu dovrai assecondare la vita; lamentandoti o con gioia, questa è una tua scelta.Se l'asseconderai di malavoglia, soffrirai; se l'asseconderai con gioia, diventerai un Buddha e la vita diventerà estasi.
Quando la consapevolezza esiste nella sua più completa nudità, ha un proprio splendore: è la cosa più bella che esista al mondo. Ma perché sia così, ci si deve immergere nell'accettazione della natura delle cose. Ricorda, la parola “accettazione”non è granché. È troppo pesante - a causa tua, non a causa della parola in sé - in quanto tu accetti solo quando ti senti impotente: accetti con riluttanza, malvolentieri. Accetti solo quando non puoi fare nient'altro, ma in cuor tuo desideri ancora: vorresti che fosse diverso. Accetti come un mendicante, non come un re… e la differenza è immensa.
Quando accetti veramente, in tathata, non esiste alcun rimuginare e non ti senti impotente: comprendi, semplicemente, che questa è la natura delle cose.
Tathata significa “accettazione con un cuore totalmente aperto”, non è affatto impotenza. Quando accetti la natura e ti dissolvi in essa, ne segui il corso. Non hai alcun passo personale da compiere, non hai una tua danza privata, non hai neppure una piccola canzone tua, da cantare: la canzone del Tutto è il tuo canto, la danza del Tutto è la tua danza. Tu non sei più un'entità separata.


sabato 3 febbraio 2018

LA DRAMMATICA STORIA DI HERTZKO HAFT, PUGILE SPIETATO AD AUSCHWITZ PER SOPRAVVIVERE



Si è appena celebrata la Giornata della memoria della Shoah, l'eccidio di oltre 6 milioni di persone di religione ebraica, e tra le innumerevoli storie tragiche di quel drammatico periodo ne emerge una particolarmente significativa, quella di Hertzko Haft, polacco ebreo divenuto pugile spietato per sopravvivere in combattimenti con altri deportati nel lager di Auschwitz e, dopo una fuga rocambolesca e una vita avventurosa, conclusa da campione di box negli Stati Uniti d'America.
«Dopo tutto quello che ho passato, che paura vuoi che mi faccia un uomo con i guantoni?» diceva agli amici americani, prima di battersi contro super pugili del calibro del peso massimo Rocky Marciano. Durante tutti quegli anni, la sua eterna ossessione era stata ed era ancora, piuttosto, la bella ragazza di nome Leah, anche lei ebrea polacca, alla quale prima della deportazione nel campo di sterminio aveva giurato eterno amore e con la quale aveva sognato di vivere per tutta la vita e di formare una famiglia, salvo poi separarsi per sempre da lei una volta spedito ad Auschwitz. Nell'Europa degli anni '40, infatti, una vita come tante voleva dire fare i conti con la piovra nazista, con crudeltà, privazioni, sofferenze e morte. Hertzko Haft, detto la “belva giudea” ,non avrebbe mai potuto temere il ring, il suono del gong, i ganci che gli arrivavano in faccia. Quando in America colpiva i suoi rivali - e lo faceva con tutta la rabbia che aveva in corpo - non “vedeva” pugili, ma ancora prigionieri del lager da abbattere senza pietà: gli stessi che, molti anni prima, era stato costretto ad atterrare e massacrare in match mortali per poter sopravvivere. È questa la terribile storia così come lo stesso Hertzko l'ha raccontata al figlio Alan: dapprima raccolta in una biografia, poi trasposta a fumetti in un toccante graphic novel firmato da Reinhard Kleist (Il pugile, Bao Publishing).
L'invasione della Polonia nel 1939 è il messaggio di guerra che la Germania lancia al mondo. I tedeschi sono molto duri con i polacchi, e lo sono ancora di più se sono di religione ebraica. Hertzko, nato a Belchatow nel 1925, lo è e potrebbe forse sfuggire alla mannaia del Reich, ma decide di sacrificare la propria libertà per salvare quella del fratello Aria. Lo fa fuggire, ma finisce al posto suo nelle mani dei tedeschi che gli schiacciano anche le dita di una mano. Lo attende quel luogo dal nome sinistro: Auschwitz. L'unico rimpianto è quello di aver abbandonato la bella Leah.
«Fummo svegliati nel cuore della notte e ammassati a centinaia, come animali, in vagoni bestiame» raccontò poi. «Il viaggio mi sembrò durare una settimana, senza niente da mangiare né bere, in uno spazio angusto pervaso dal tanfo di urina e feci, le nostre. Alla fine si sentirono solo i moribondi esalare l'ultimo respiro sotto i nostri piedi. Dio non esisteva più».
Al campo di sterminio gli incidono sul braccio il numero 144738. Hertzko è uno dei tanti, ma non passa inosservato: non è altissimo ma, arrivato da poco e non a cosa segnato di privazioni e crudeltà, ha ancora un fisico possente e… tanta cattiveria in corpo. La salvezza, se così può chiamarsi, arriva sotto le spoglie di un ufficiale SS che lo prende sotto la sua protezione e lo convince a tirare di boxe per poter sperare di sfuggire ai più terribili soprusi e alla morte. E nei lager, si sa, quelli che comandano cercando di inventarsi degli svaghi, finendo spesso per farlo sulla pelle dei prigionieri. L'attività che meglio si adatta a quegli ambienti con poco spazio è quella della boxe. Non certo come nobile arte, naturalmente, ma come disperata lotta per la sopravvivenza. Un po' come lo era la lotta per i gladiatori romani. La boxe per Hertzko diventa solo puro istinto, salvare se stesso condannando ogni volta alla fine un innocente nella sua stessa condizione. La boxe ad Auschwitz è una lotta all'ultimo sangue, uno spettacolo di puro sadismo. Gli ufficiali SS sono gli spettatori, puntano sui combattenti e mandano a morte gli sconfitti. Uomini ridotti a bestie, a uccidere per vivere. Picchia selvaggiamente, Hertzko, tanto da guadagnarsi il soprannome di “belva giudea”. Colleziona una lunga serie di spaventose vittorie (forse un'ottantina per ko), ognuna delle quali sarà, poi, una cicatrice nella coscienza. Nel campo di sterminio ci sono altri pugili della morte come lui, qualcuno anche più famoso di lui (come Young Perez, campione del mondo dei pesi mosca), ma nessuno racconterà una storia come la sua.
In questo incubo senza fine occupare la mente con il sorriso della bella Leah è un lusso che Hertzko non si può permettere, la mente completamente concentrata a fracassare la testa a candidati a morte come lui, uno dopo l'altro. Ma restare lì e assistere anche ad atti di cannibalismo tra prigionieri è morire ogni giorno un po' di più. Un circolo di orrore con due soli spiragli: la morte o la fuga. Quest'ultima gli riesce in maniere rocambolesca e fortunata dopo l'assassinio di un ufficiale nazista al quale ruba l'uniforme e di due vecchi che avevano scoperto la sua origine ebraica. A portarlo in salvo sono gli americani. Gli Stati Uniti un lontano zio fa da garante per il suo arrivo e soggiorno. È il 1948, l'America gli offre la possibilità di continuare a boxare. La luce dopo il buio. Hertzko pensa sempre a Leah, ha sentito dire che anche lei è fuggita in America e si mette a cercarla. Ma dove trovarla? C'è un solo modo, pensa: diventare famoso, avere il suo nome a caratteri cubitali sui giornali e offrire a Leah la possibilità di ricontattarlo.
È così che Harry, questo è il nuovo nome americano, comincia la carriera di pugile. È un atleta istintivo, senza tecnica, violento ogni oltre limite, ma senza una strategia difensiva accettabile. Male per per un peso massimo come lui, categoria in cui i pugni incassati sono spesso come cannonate. Pugni che comunque sono carezze in confronto alle angherie subite ad Auschwitz e… ai rimorsi che lo tormentano per aver fatto fuori, un tempo, tante persone come lui. Disputa venti incontri fino al luglio del 1949, vincente fino al k.o. con Lastarza. Però dopo le vittorie iniziali iniziano le sconfitte e match dopo match le sue certezze si incrinano. La fortuna non può aiutarlo a lungo, in quelle condizioni, e infatti sta per abbandonarlo. Ed è il ventunesimo match, quello tanto atteso, quello contro il grande Rocky Marciano, il 18 luglio del '49 all'Auditorium di Rhode Island, a chiudere tutti i conti. Quella sera si presentano nello spogliatoio tre mafiosi. «Sarebbe meglio per lui se si buttasse a terra al primo round» dicono al suo manager. Finisce davvero per k.o. e, benché non fosse un segreto il rapporto preferenziale della mafia con il pugile di origine italiana, non ci sono prove che quell'incontro fosse veramente truccato. Potrebbe essere stata anche una scusa di Harry per giustificare la sua sconfitta così bruciante.
È l'ultimo atto. Harry scende dal ring portandosi dietro tutti i suoi demoni. Cerca di esorcizzarli raccontando la sua storia al figlio Alan che, appunto, la trasforma in un libro. Ma, nonostante abbia una famiglia e dei figli, resta un uomo circondato da durezza e gli è impossibile calarsi nell'amore. Chissà, ritrovare Leah potrebbe aprire una breccia nel suo cuore indurito. La ritrova però, e questa è la sua più atroce sconfitta, malata terminale di cancro, irriconoscibile ma felice di riabbracciarlo. Ecco la drammatica storia di Hertzko, vissuta in
un mondo dove non ci sono uomini buoni, dove non poteva esserci un lieto fine.