giovedì 4 dicembre 2014

LA COLLERA: CRUDELMENTE DOLCE, MA VELENOSA. MEGLIO PERDONARE



Uno dei miei post più letti è stato quello sulla collera e il modo di neutralizzarla rimanendo un testimone, vale a dire vedendola sorgere, svilupparsi e infine estinguersi. Del resto, questo è un argomento scottante perché tutti possiamo constatare ogni giorno come la crisi finanziaria dilagante in tutta Europa stia esasperando sempre più le persone e scateni sempre più frequentemente crisi di aggressività e di odio davvero paurose. Tuttavia ci rendiamo conto che, agendo sull'onda dell'impulso, finiamo con  il compiere azioni riprovevoli e con il guastare irreparabilmente i rapporti interpersonali, senza peraltro cambiare la realtà e per di più facendo del male soprattutto a noi stessi. Per questo mi piace tornare sull'argomento citando un passo di un bellissimo libro dell'americana Sharon Salzberg pubblicato molto tempo fa, nel 1995, da Ubaldini Editore. Ecco che cosa dice in proposito questa autrice fedele ai principi del buddhismo e insegnante di meditazione all'Insight Meditation Society di Barre, in Massachussets:

La collera sembra una cosa solida. Ma se osserviamo attentamente, scopriamo che di fatto non ha fondamento. In realtà, è semplicemente una risposta condizionata che nasce e muore. È fondamentale per noi vedere che, quando ci identifichiamo con tali stati passeggeri come se fossero stabili e come se fossero la nostra vera identità, lasciamo che essi ci controllino e siamo costretti a compiere azioni che causano dolore a noi stessi e agli altri. La nostra apertura richiede di riposare su una base di non identificazione. Riconoscere nella mente l'avversione o la collera come un fatto transitorio è molto differente dall'identificarci con essa come se fosse la nostra vera natura e dall'agire su di lei.
La collera è un'emozione molto complessa con numerosi componenti diversi. Si tratta di un fascio di elementi, come il disappunto, la paura, la tristezza, legati assieme. Se le emozioni e i pensieri sono presi come un insieme, la collera appare come una cosa solida; ma se la analizziamo e ne consideriamo i vari aspetti, possiamo comprendere la natura ultima di questa esperienza. Possiamo vedere che la collera è impermanente e che sorge e scompare come un'onda che viene e va, possiamo capire che è insoddisfacente, che non ci offre una gioia durevole e che manca di un “io” che la determini; inoltre, che non sorge in accordo con la nostra volontà, col nostro capriccio o desiderio, ma solo quando sono presenti le condizioni adatte per farla sorgere. Possiamo vedere che non è “nostra”, che non la possediamo, non siamo in grado di controllarne l'inizio; possiamo semplicemente imparare a metterci in rapporto con essa.
Se osserviamo la forza della collera, infatti, possiamo scoprire in essa molti aspetti positivi, poiché non è uno stato passivo e compiacente, ma possiede un'energia incredibile. La collera può spingerci a lasciar andare le definizioni che gli altri hanno dato di noi inappropriatamente, in base ai loro bisogni: ci può insegnare a dire di no. In tal modo la collera è anche al servizio della nostra integrità, poiché può stimolarci ad ascoltare la sua voce, anziché le richieste del mondo esterno. È un modo per porre dei confini e sfidare l'ingiustizia a tutti i livelli. L'ira non prenderà le cose come dati di fatto né le accetterà senza riflessione.
La collera possiede anche la capacità di andare oltre le apparenze, di non fermarsi a un livello superficiale: è molto critica ed esigente, ha il potere di superare ciò che è ovvio per cogliere le cose più nascoste. Questo è il motivo per cui può essere trasformata dalla saggezza, con la quale, per sua natura, ha alcune caratteristiche in comune.
Ciò nonostante, gli aspetti negativi della collera sono tantissimi e superano di gran lunga quelli positivi. Il Buddha l'ha descritta così: “La collera, con la sua fonte velenosa e il suo culmine febbrile, crudelmente dolce, che tu devi eliminare per non piangere più”. È dolce infatti, ma la soddisfazione che ricaviamo da uno scoppio d'ira è molto breve, mentre il dolore dura a lungo e ci debilita.
Secondo la psicologia buddhista, caratteristica dell'ira è lo stato selvaggio. Il suo scopo è bruciare il proprio supporto, come fa il fuoco con la foresta. Ci toglie ogni cosa, ci lascia devastati. Come il fuoco che divampa libero e selvaggio in una foresta, la collera ci lascia molto lontano da dove intendevamo andare. La sua capacità di ingannare è responsabile del nostro perderci in questo modo. Quando ci perdiamo nella colera, non vediamo molte alternative davanti a noi e ci dimeniamo in modo sconsiderato.
La collera e l'avversione si esprimono con atti di ostilità e persecuzione. La mente diviene molto angusta: isola qualcuno o qualcosa, si fissa su di esso, come se avesse i paraocchi, circoscrive quell'esperienza, quella persona o quell'oggetto, come se fosse per sempre immutabile. Tale avversione produce un circolo senza fine di offesa e vendetta. Dal punto di vista politico si esprime nella lotta tra razze, classi sociali, nazioni e con l'odio religioso. La collera può legare insieme le persone con altrettanta forza del desiderio, così che esse si trascinano vicendevolmente, avvinghiate l'un l'altra nel circolo vizioso della vendetta, mai capaci di lasciar andare, di calmarsi. Il commediografo e statista Vaclav Havel ha notato acutamente che la rabbia ha molto in comune col desiderio, poiché è “la fissazione sugli altri e la dipendenza dagli altri; è, di fatto, la delega di una parte della nostra identità a loro… Chi odia desidera fortemente l'oggetto del proprio odio”.
Così la collera non finirà mai se la gente continuerà a mettersi in relazione nello stesso modo. Per esempio, possiamo vedere una persona subire una violenza e poi, spesso, ottenuto a sua volta il potere, comportarsi proprio come il suo carnefice. Qualcuno mi invia una lettera con cui mi accusa e io lo accuso a mia volta.
Come possiamo lasciar andare in una simile situazione? Come possiamo cambiarla? Possiamo concentrare la nostra attenzione più sulla sofferenza della situazione, sia la nostra sofferenza sia quella degli altri, piuttosto che sulla nostra rabbia. Possiamo chiederci con chi siamo realmente arrabbiati, e di solito lo siamo con la rabbia che è nell'altra persona. È quasi come se l'altro fosse uno strumento della rabbia, che si muove attraverso di lui e lo spinge ad agire in modi non appropriati. Non andiamo in collera guardando la bocca di qualcuno che ci grida contro; siamo arrabbiati con la rabbia che lo fa gridare. Se aggiungiamo rabbia alla rabbia, contribuiamo solo ad aumentarla.
C'è una frase molto famosa del Buddha che dice: “L'odio non potrà mai cessare con l'odio; l'odio può cessare solo con l'amore. Questa è una legge eterna”. Possiamo cominciare a trascendere il ciclo dell'avversione quando cessiamo di considerarci personalmente agenti di vendetta. In definitiva, tutti gli esseri sono i possessori del proprio karma. Se qualcuno ha causato del male soffrirà; se noi stessi abbiamo causato del male soffriremo. Come disse il Buddha nel Dhammapada:

Siamo quello che pensiamo.
Tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri.
Con i nostri pensieri creiamo il mondo.
Parla e agisci con una mente impura
E il dolore ti seguirà
Come la ruota segue il bue che trasporta il carro…
Parla e agisci con mente pura
E la felicità ti seguirà
Come la tua ombra irremovibile.

…Quando la nostra mente è piena di rabbia e odio verso gli altri, di fatto noi siamo quelli che soffrono, invischiati in quello stato mentale. Ma non  così facile accedere a quel luogo dentro di noi che può perdonare e amare. Essere capaci di perdonare, di lasciar andare, significa, in un certo senso morire (in tal caso a morire è l'ego, nota mia). È la capacità di dire: “Io non sono più quella persona e tu non sei più quella persona”. Il perdono ci consente di riconquistare qualche parte di noi (la consapevolezza, il testimone, nota mia) che ci siamo lasciati dietro, schiava di un evento passato. Qualche parte della nostra identità potrebbe anche dover morire in questo lasciar andare, e così potremmo recuperare l'energia trattenuta nel passato…
…Avere uno scopo, come lo sviluppo di un cuore amorevole, è la chiave per vivere una pratica liberatrice.
Se siamo in grado di imparare a vedere e a comprendere tutti gli stati mentali dolorosi di rabbia, paura, angoscia, delusione e colpa come stati di avversione, possiamo imparare a liberarci da essi, ma ciò non significa che non sperimenteremo più avversione; significa piuttosto che potremo purificarla. Possiamo chiaramente vedere l'avversione, comprenderla e imparare a non esserne governati e, avendola vista con chiarezza (questa è la funzione della saggezza - o del Sé, nota mia - ), possiamo anche tenerla nel ampo vasto e foriero di trasformazione dell'accettazione…
Per liberarci da una radicata avversione verso noi stessi e gli altri dobbiamo essere capaci di praticare il perdono. Come l'amore, il perdono ha il potere di far maturare le forze della purezza e di affermare le qualità della pazienza e della compassione. Crea lo spazio per un rinnovamento e una vita libera dall'asservimento al passato.
Quando siamo prigionieri delle nostre azioni passate o delle azioni degli altri, la nostra vita non può essere vissuta pienamente, poiché il risentimento, il dolore ingiustamente subito, lo spiacevole retaggio del passato concorrono a chiudere i nostri cuori e perciò a restringere il nostro mondo…
Perdonare non significa condonare un'azione nociva o negare l'ingiustizia e la sofferenza; è una cosa che non dovrebbe mai essere confusa con la passività verso la violenza o l'abuso. Il perdono è un abbandono interiore della colpa o del risentimento. Quando il perdono cresce può prendere qualsiasi forma esteriore, possiamo cercare di fare ammenda, chiedere giustizia, decidere di farci trattare meglio o semplicemente lasciarci una situazione alle spalle.      

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