mercoledì 13 agosto 2014

LA TRAGICA FINE DI ROBIN WILLIAMS. E ORA SONO IN MOLTI TRA QUELLI CHE L'HANNO AMATO A CHIEDERSI: “PERCHÉ?“

                       
È proprio vero, come adesso stanno dicendo un po' tutti i media: con i tanti, memorabili personaggi che ha interpretato, ci ha commosso intensamente, ci ha fatto ridere e piangere, attraversando tutti i generi della recitazione cinematografica, e adesso che è uscito di scena in quel modo tanto tragico, siamo tutti sgomenti e addolorati. Abituati a vedere lui, come tanti altri divi del grande schermo, come esseri speciali, privilegiati, ricchi e amati, non riusciamo a capire come un attore affermato, ricoperto di fiumi di denaro (almeno in passato) per ogni film girato, possa finire così, con la vita annegata nell'alcol, nella droga e nella disperazione. E come abbia potuto decidere la lasciare volontariamente per sempre l'amata figlia Zelda e la terza moglie, in una fresca e luminosa mattina di piena estate, nella solitudine della sua splendida casa di San Francisco. Solo un mese fa era stato dimesso da una clinica dove si era ricoverato per una disintossicazione dall'alcol, e non era certo la prima volta. Dipendenza da sostanze, dalla fama e dai soldi (che negli ultimi tempi erano sempre più scarsi), ma possibile, senza tuttavia voler dare giudizi in merito, che gli affetti familiari contassero così poco? E, poi, sorprende che persone intelligenti, aperte, sensibili, come era certamente Robin Williamson, per curare le insondabili ferite dell'anima non sappiano andare oltre l'uso di stupefacenti e psicofarmaci, come se oggi il mondo non potesse offrire altre soluzioni, decisamente non pericolose e, al contrario, liberatorie, capaci di dare una prospettiva completamente diversa dalla quale osservare la vita? Basterebbe forse, in certi casi, affidarsi al conforto di un credo che dia una nuova forza interiore, un nuovo slancio capace di passare un colpo di spugna sulle angosce interiori, sul senso di vacuità che per alcune persone circonda la vita, su quel malessere che corrode l'anima da dentro e spesso, come in questo caso, non lascia scampo.


In tanti casi, una filosofia di vita ispirata, per esempio, agli insegnamenti del buddhismo potrebbe essere una via d'uscita. E di certo negli Stati Uniti questi hanno avuto una larga diffusione, probabilmente più che in Europa. Ma il problema è che in certi ambienti della società molto competitivi, molto duri, come quello dello star system cinematografico americano, non è facile resistere a certi richiami autodistruttivi  e inoltre bisogna riconoscere che certe coscienze, a causa di una sensibilità diversa, non sono ancora pronte ad accogliere tali insegnamenti, un po' come la terra arida per una prolungata siccità non è capace di accogliere e far germogliare i semi portati dal vento.
Eppure, ci insegna un grande maestro spirituale, uno dei miei preferiti, come è Thic Nhat Hanh, ci indica una strada facile e ardua nello stesso tempo: portare consapevolezza nella nostra vita come unico rimedio all'infelicità esistenziale. «Per essere felici - afferma in uno dei suoi tanti, bellissimi e avvincenti libri (Camminando con il Buddha - Zen e felicità, Oscar Mondadori, già citato nel precedente post e capitato ad hoc anche in questa occasione) - non serve una gran quantità di denaro, né di fama o di potere: per essere felici abbiamo bisogno di presenza mentale. Abbiamo bisogno di libertà – libertà dalle preoccupazioni, dall'avidità, dalle ansie – in modo da poter entrare in contatto con le meraviglie della vita che abbiamo a disposizione qui e ora».
È in fondo una concezione minimalista della vita,  che si affida a una presenza sensuale, al percepire, escludendo pensieri, giudizi e altri giochi della mente e dell'ego, tutto ciò che i sensi ci trasmettono a 360 gradi, così da essere in contatto diretto e continuo con la natura e il suo divenire, e in definitiva con la Vita e il suo scorrere. Parole che possono apparire scontate, una formula vuota, se le si esamina attraverso la mente stessa, invece in un certo senso rivoluzionarie vissute dal cuore.
E se Robin Williams, come tante altre persone tristi e depresse, avesse apprezzato con tutto se stesso le bellezze del mondo e della vita, se si attraverso fosse sentito vivo fino all'ultima fibra del suo corpo, sarebbe stato anche più propenso a scegliere di assistere in prima persona, anzi in prima fila, alla svolgersi del film della sua esistenza, fino alla parola “The End” scritta dalla vita stessa. Avrebbe potuto vivere altri momenti meravigliosi e altre sconfitte con lo stesso atteggiamento distaccato, ironico che fa dire “Ah, è così? Anche questo passerà”, anziché scegliere un finale diverso e, forse, non privo di conseguenza sul piano del karma individuale.
La vita di ciascuno è davvero come un film cui ognuno, ogni giorno, aggiunge una scena, è come un mosaico cui ciascuno ogni giorno unisce qualche tassello, ed è bello scoprire con il tempo come il film o il mosaico prendano forma, si arricchiscano e offrano sempre più un quadro d'insieme.
È vero, la vita non sempre è una compagna gradevole, non sempre ci appare amica, ma ci è comunque maestra, un po' come la morte. Come una madre severa ma comprensiva, dura ma caritatevole, ci pone davanti prove difficili (spesso conseguenza di nostre scelte sbagliate, di errori di condotta!) per farci capire dove abbiamo sbagliato, però ci offre anche la possibilità di rimediare, se lo vogliamo. Perché è indubbio che ogni giorno, consciamente o no, ciascuno di noi pone i semi di quello che ci accadrà domani o in futuro.




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